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Super News | “La mia prossima destinazione sarà una nuova sfida”

Nasce in Canada da genitori italiani e dopo una carriera da calciatore in Francia, in Svizzera e a Guadalupa, ha continuato a girare il mondo, con un pallone sotto al braccio, allenando e vincendo in paesi lontani, alcuni dei quali anche piuttosto particolari. Sto parlando naturalmente di Stefano Cusin, che in questa lunga e piacevole chiaccherata, ripercorre le tappe fondamentali della sua carriera, che lo hanno visto protagonista in luoghi come il Camerun, il Congo, la Libia, Dubai e la Palestina, e parlandoci, tra le altre cose, della sua costante voglia di migliorare e di confrontarsi, del voler sempre andare oltre ogni tipo di pregiudizio e del suo bellissimo rapporto professionale con Walter Zenga.

Ti hanno simpaticamente definito l’allenatore giramondo. Pensi sia giusta come definizione?

“Mi hanno definito giramondo, globe-trotter, ma io sono un allenatore e quindi ritengo sia questa la definizione esatta. Ovviamente è inusuale che un allenatore italiano si metta a girare il mondo, ma io sono prima di tutto un allenatore.”


Hai allenato in luoghi molto lontani, alcuni dei quali piuttosto difficili anche solo per viverci, immaginiamo per praticare dello sport. Da osservatore esterno, a mio modesto parere, quello che fai non può essere ridotto, troppo semplicisticamente all’allenare una squadra di calcio: tu stai sopratutto cercando di insegnare (che è ben diverso) il gioco del calcio, vivendolo quotidianamente come un momento di confronto e di unione. Mi sbaglio?

“Io ho sempre guardato al progetto sportivo. Ogni qual volta mi sono state proposte delle situazioni, io le ho valutate sempre, ed esclusivamente, dal punto di vista dell’aspetto sportivo. Io sono andato a lavorare dove ho visto possibilità di crescita, dove c’era la possibilità di fare un progetto, dove si poteva sviluppare una metodologia e soprattutto dove potevo avere intorno persone serie con dei sani principi. Alcuni di questi paesi appaiono di certo difficili o addirittura esotici (e alcuni lo sono stati sicuramente) però io sono convito che sia necessario andare sempre oltre i semplici pregiudizi. Si usa dire che dietro ogni ostacolo ci sia un’opportunità, ed io molto spesso l’ho colta in pieno.”

Quali sono i ricordi migliori che porti con te dai luoghi in cui sei andato ad allenare?

“I ricordi sono tantissimi, sia per quanto riguarda i luoghi, sia per quanto riguarda le persone che ho incontrato. L’estero è una cosa che ti entra molto forte dentro: quell’insieme di sapori, odori, ambienti, situazioni e persone totalmente diverse. E’ tutto nuovo e se sei un po’ ricettivo come me, assorbi tutto. Io quando ho lavorato per una squadra sono diventato, di fatto, camerunense, bulgaro, arabo, perché sono convinto che se tu vuoi allenare delle persone con una cultura diversa, se vuoi essere efficace nel tuo lavoro, devi innanzitutto comprenderli e devi cercare di metterti al loro pari e non il contrario. Sono state tutte esperienze bellissime. Compreso quelle che alla fine si sono rivelate negative, perché comunque ti insegnano qualcosa.”

Mi piacerebbe ripercorrere con te le tappe di questo giro del mondo con il pallone sotto al braccio. Terminata la carriera da calciatore, effettuata tra la Francia, Svizzera e Gudalupa, sei entrato nello staff tecnico dell’Arezzo e successivamente del Montevarchi. Subito dopo però, valige in mano, si parte per l’Africa, in Camerun e in Congo, giusto?

“Finito la carriera da calciatore, in Italia ho iniziato dalle squadre giovanili, facendo tutta la trafila con la scuola calcio, gli esordienti, i giovanissimi e gli allievi. Erroneamente, in passato, è stato scritto che io facevo parte dello staff tecnico della prima squadra, ma io in Italia ho sempre fatto il settore giovanile. Se volgo lo sguardo al passato posso dire che, forse, quello è il periodo durante il quale mi sono veramente divertito, perché ho avuto modo di sperimentare, perché già da allora avevo idee sicuramente diverse e avevo anche un tipo di approccio diverso. All’epoca, ad esempio, andava molto di moda far fare le salite ai bambini, mentre io, invece, ho sempre puntato tutto sul gioco, sulla qualità, sul lavorare tecnicamente con i ragazzi, vincendo tra l’altro anche diversi campionati. E queste vittorie arrivavano perché c’era un progetto, c’era un’idea di fare squadra, di fare gruppo. C’era un’idea di gioco, e per me è stato un grande bagaglio di esperienza. Successivamente parto per l’Africa, perché mi sembrava il continente giusto dove c’era il materiale umano per fare calcio per davvero. Sono stati anni molto belli, bellissimi, e anche grazie al lavoro svolto in quel periodo sono cresciuti e lanciati ben trentacinque calciatori che giocano in Europa attualmente”

Dopo questa avventura nel continente africano torni in Europa, e precisamente in Bulgaria, per allenare il Botev Plovdiv. Come è andata quell’esperienza?

“Anche quella in Bulgaria è stata senza dubbio un’esperienza importante. L’opportunità di allenare in una massima serie europea di ottimo livello era affascinante. Purtroppo, però, sono arrivato, in pratica, nel momento sbagliato, perché già dalla stagione precedente c’era una contestazione in atto contro il presidente, che mi ha costretto a lavorare in condizioni ambientali abbastanza difficili. Ho avuto però l’occasione di occuparmi di una prima squadra e capire, quindi, le differenze che c’erano tra allenare una primavera ed allenare in serie A. Ho potuto studiare e crescere professionalmente, oltre a comprendere altri aspetti del mondo del calcio di fondamentale importanza.”

Se non erro è proprio durante la tua stagione in Bulgaria che conosci personalmente un personaggio piuttosto importante, al quale sei legato, ormai, non solo dal punto di vista professionale e lavorativo. Sto parlando ovviamente di Walter Zenga.

“Durante la preparazione estiva del Botev Plovdiv abbiamo fatto un’amichevole contro il Catania dove ho conosciuto Zenga. E quella giornata la ritengo importantissima perché ha influenzato notevolmente la mia vita da li in avanti. E’ stato il classico incontro che ti cambia la vita, il colpo di fortuna grazie al quale ho realizzato tantissime cose che, molto probabilmente, se non avessi incontrato Zenga, non sarebbero mai avvenute. Io, alla fine, ero un’autodidatta, e la possibilità, in seguito, di lavorare e di confrontarmi con un allenatore come lui, con un allenatore di Serie A, è stata decisiva.”

Intanto il tuo viaggio continua. La prossima tappa, infatti, è la Libia, dove alla guida dell’Al Ittihad di Tripoli vinci anche il tuo primo campionato. Che ricordi hai di quel periodo?

“Un giorno ricevo una mail di un procuratore che operava in Africa che mi chiede se ero disponibile ad andare ad allenare in Libia. Io conoscevo davvero poco di quel paese, quindi decido di fare qualche ricerca su internet. Circoscrivo la mia ricerca ai filmati relativi alle ultime tre squadre in classifica del campionato libico, non trovando, però, assolutamente nulla. D’altro canto c’erano tantissimi video di due squadre, una rossa e una verde, che giocavano in stadi stracolmi di persone e in un’atmosfera davvero impressionante. Una era l’Al-Ittihad e l’altra era l’Ahli di Tripoli. Qualche giorno dopo firmo la delega a questo agente e vengo a sapere che la squadra che era alla ricerca di un allenatore era proprio l’Al-Ittihad. Mi tornano subito alla mente i filmati che avevo visionato qualche giorno prima e stento a crederci. Una decina di giorni dopo sono partito per Tripoli dove ho conosciuto il figlio di Gheddafi, il dottor Mohammed, che era il presidente della società. Lui doveva incontrare altri tre allenatori, oltre al sottoscritto, e invece, il giorno dopo il nostro incontro, mi fa richiamare per dirmi che la persona che stava cercando ero io. Anche l’esperienza libica, ovviamente, è stata importantissima, perché sulla squadra, su di me, sullo staff, sulla società, c’era una pressione mediatica a volte insostenibile. A Tripoli c’erano più di un milione di tifosi dell’Al-Ittihad. Mi ricordo che facevamo gli allenamenti con la presenza costante di duemila persone sugli spalti. C’era una passione immensa per questo sport, e la Libia era comunque un paese con dei valori molto forti e pieno di belle persone. Uno dei ricordi più importanti di quella stagione è stato senza dubbio il il primo derby che ho giocato. Noi eravamo in piena rincorsa in classifica, perché quando sono arrivato io la squadra era quinta a nove punti di distacco dalla capolista e quel giorno, se avessimo vinto, avremmo ridotto la distanza a soli due punti. E’ stato un derby incredibile perché l’arbitro al settantesimo, sul risultato di uno a uno, ci ha espulso un uomo, ma nonostante l’inferiorità numerica siamo comunque riusciti a trovare il gol del due a uno che ci ha consentito di vincere la partita davanti a novantamila persone. Ricordo che l’autobus che doveva riportarci dallo stadio all’albergo ha percorso i circa tre chilometri di distanza in ben quattro ore: per strada ci saranno state settecentomila persone a festeggiare la nostra vittoria. Una vittoria che riapriva il campionato. Ricordo perfettamente che prima di scendere in campo ho detto ai miei giocatori che se avessimo vinto quella partita, due gare dopo saremmo stati primi in classifica. E così è stato, perché nella giornata successiva loro pareggiarono e noi vincemmo, portandoci a pari merito al primo posto. Per poi vincere il campionato. Un’esperienza incredibile, ma soprattutto un primo assaggio di quello che voleva dire allenare un top club.”

Terminata la stagione in Libia, parti alla volta dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi, facendo il vice allenatore proprio di Walter Zenga. Come è nata questa collaborazione?

“Dopo aver vinto praticamente tutto in Libia ho ricominciato a guardarmi intorno. Mi aveva contattato una Federazione in Africa per allenare la nazionale, ma nel Novembre del 2009 mi chiama Walter Zenga. Era appena stato esonerato dal Palermo e mi chiede se ero interessato ad allenare l’Unirea Urziceni, squadra rumena in quel momento prima in classifica ed in procinto di giocare un sedicesimo di finale di Europa League contro il Liverpool. Walter dopo l’esperienza di Palermo non se la sentiva di ricominciare subito ad allenare, ma quando lo avevano contattato aveva fatto il mio nome e mi stava quindi avvisando per tenermi pronto. Io però declinai cortesemente l’offerta perché non mi sentivo ancora pronto per un’esperienza del genere. Sono convinto, infatti, che anche l’allenatore, così come i calciatori, non debbano bruciare le tappe, ma crescere gradualmente. Ricordo che lui fu molto sorpreso dalla mia risposta, anche perché penso che in pochi avrebbero rifiutato una proposta del genere, ma a distanza di dieci giorni mi richiamò di nuovo per chiedermi se ero disponibile a fargli da vice allenatore. Da quel momento è iniziata la nostra collaborazione. Qualche giorno più tardi ci siamo recati in gran segreto a Beirut, in Libano, per incontrare il principe di questa squadra saudita. Siamo rimasti tre giorni a parlare di giocatori e di tattica e, successivamente, abbiamo firmato il contratto e da giugno abbiamo iniziato la preparazione. A gennaio, poi, ci siamo spostati a Dubai, anche perché Walter ha avuto dei problemi relativi ad alcuni pagamenti da parte della società (sembra strano, ma è tutto vero), dove ci siamo messi alla guida di una squadra che lottava per non retrocedere e l’abbiamo portata in Champions League. L’anno successivo, poi, abbiamo ulteriormente migliorato i nostri risultati, arrivando secondi in campionato nonostante non avessimo neanche un nazionale in squadra. Con Walter c’era grande feeling dentro e fuori dal campo e questo rapporto, insieme al lavoro di uno staff incredibile, ci ha portato a conseguire dei risultati eccellenti. Abbiamo viaggiato tanto, abbiamo partecipato alla Champions League asiatica, abbiamo vinto tantissime partite ed è stata, senza dubbio, un’esperienza decisiva per la mia crescita.”

Nel 2015 sei balzato agli onori della cronaca diventando il primo italiano ad allenare in Palestina. Come ci sei arrivato e cosa ti ha spinto ad andare in quei territori?

“In quel periodo io e Zenga eravamo fermi da qualche mese. Lui aveva appena rifiutato il Cagliari ed io avevo voglia di allenare. Una mattina ricevo un messaggio con su scritto: “Ma tu, Coach, alleneresti in Palestina?”. La Palestina? Io non la conoscevo molto, ma avevo comunque intuito che qualche problemino in quei territori c’era, e mi sono quindi un po’ informato. Nella mia carriera, così come nella vita, però, ho imparato a non dare mai retta ai pregiudizi, e ho quindi deciso di provare questa avventura. La spinta decisiva, però, me l’ha data il presidente di questa squadra, che mi ha chiamato e mi ha parlato per quarantacinque minuti al telefono di tutta la storia della società, di tutte le persone che la compongono, dei loro valori, dei loro obbiettivi, dei loro giovani, ecc… Questo genere di approccio mi ha colpito particolarmente perché generalmente il presidente ti chiama per trattare sul compenso o per pretendere delle vittorie, mentre invece il suo è stato un approccio molto umano che mi ha convinto a fare questa scelta. Doveva essere un’esperienza passeggera, ed invece mi ha segnato profondamente.”

Se non ti dispiace mi piacerebbe approfondire ulteriormente questa esperienza che, seppur breve, ti ha consentito di vincere numerosi trofei. Oltre il punto di vista prettamente agonistico, quindi, cosa ti ha lasciato dal punto di vista umano?

“Sono arrivato ad Hebron nel Gennaio del 2015, in pieno inverno. C’era la neve e un freddo polare. Ho assistito ad una partita della squadra e ho avuto una buonissima impressione. Era una squadra da metà classifica, che era stata promossa in serie A solo due anni prima. Li guardavo giocare e già immaginavo come avrei potuto spostare i miei giocatori per valorizzare di più le loro caratteristiche e dare loro una collocazione più tattica. Ci siamo messi a lavorare fin da subito molto duramente, e la fortuna ha voluto che dopo neanche un mese ci siamo ritrovati a giocarci la Coppa di Lega, vincendola tra l’altro, e battendo in semifinale la squadra campione in carica. Anche se, bisogna ammettere ad onor del vero, che a loro mancavano i nazionali impegnati in Coppa d’Asia. Una piccola attenuante, che però non sminuisce la nostra impresa. Da li in poi c’è stata praticamente un’escalation. La società era molto presente. Tutti erano molto partecipi e ogni sera andavamo a cena a casa di un dirigente, visto che per loro l’ospitalità è una cosa fondamentale. Si è creato un grande feeling con i giocatori e con la città, e con questi presupposti può fare qualsiasi cosa: tant’è vero che poi, nella Coppa nazionale, siamo addirittura riusciti a battere squadre ben più forti di noi. Grazie a questa vittoria, inoltre, abbiamo avuto la possibilità di giocare la finale di supercoppa contro la squadra vincitrice a Gaza: un evento storico, che non avveniva da quindici anni e che è stato possibile grazie al decisivo intervento della FIFA che ha esercitato una grossa pressione sulla Federazione d’Israele. Una finale giocata con un doppio confronto che ci ha visti uscire vincitori anche in questa occasione. Infine è arrivata la finale della Supercoppa contro la squadra che aveva vinto il campionato del West Bank, e anche in quell’occasione siamo riusciti ad imporci, portando quindi a casa ben quattro titoli in appena otto mesi: un vero e proprio record. In quel contesto è difficile dire dove si fermava l’aspetto sportivo e dove iniziava l’aspetto umano: io ho sempre vissuto la mia professione con grandissima intensità e sono convinto che allenare un giocatore non significa solo prepararlo al meglio per giocare a calcio, ma significa anche interessarsi dei suoi problemi e se è possibile aiutarlo. In Palestina si è creato un rapporto molto forte fra me, la città e la squadra, nonostante i palestinesi siano persone molto discrete e riservate. Ho vissuto in simbiosi con loro per molto tempo, quindi un’opinione sulla loro situazione me la sono chiaramente fatta, però ho sempre cercato di rimanere al di fuori del contesto politico, perché credo che l’allenatore di calcio abbia altre ben altre funzioni. Io sono un professionista, ma credo comunque che, nel nostro piccolo, siamo riusciti a far risaltare in maniera positiva la Palestina rispetto ai problemi per i quali è conosciuta da tutti.”

Una realtà purtroppo difficile quella palestinese. Il calcio, però, mi risulta abbia sempre avuto un discreto seguito da parte della popolazione della Palestina. Qual’era il livello della West Bank League, il campionato della Cisgiordania nel quale l’Ahli a-Khalil da te allenato, giocava? E com’era la situazione degli impianti sportivi e di allenamento di quei luoghi, invece?

E’ vero, dal punto di vista sportivo è una realtà difficile perché comunque ci sono pochi impianti sportivi. Per esempio, ad Hebron, c’era la disponibilità di un unico campo: un impianto da quindicimila persone con campetti tutti in erba sintetica, dove si allenano, a turno, e a volte anche contemporaneamente, tutte le squadre della città. Il campionato della West Bank è sicuramente ben organizzato. Molto di più rispetto a quello che pensavo inizialmente. Arbitri di discreto livello ed il calendario della Federazione abbastanza rispettato. Inoltre ci sono tantissimi giocatori di qualità. L’altro annoso problema sono gli spostamenti: chiaramente se andavamo a giocare al nord per una trasferta distante circa duecento chilometri, potevamo anche metterci una mezza giornata, a causa dei posti di blocco, delle deviazioni, delle strade impervie o del malfunzionamento dei mezzi utilizzati, non di certo all’avanguardia. Credo comunque che il calcio palestinese nel giro di pochi anni potrà fare un vero e proprio salto di qualità. Le basi sono state lanciate anche con la recente partecipazione della nazionale locale alla Coppa d’Asia e con la partecipazione al girone di qualificazione mondiale, l’altro inserita con squadre di un certo livello come gli Emirati Arabi o l’Arabia Saudita e riuscendo comunque a difendersi bene e arrivando terza.”

Uno degli emblemi di quella stagione è stata, senza dubbio, la finale di Supercoppa tra le squadre vincitrici delle due coppe nazionali relative ai due campionati che si giocano nei territori palestinesi. Puoi spiegare meglio, a chi magari non conosce bene questa realtà, perché quell’evento, è stato considerato storico?

“La finale di Supercoppa Palestinese è stato un grande evento di portata internazionale: basti pensare che in occasione della partita di ritorno, ad Hebron, c’erano circa duecentocinquanta giornalisti provenienti da tutto il mondo. In Palestina, in pratica, si giocano due campionati ben distinti: quello della West Bank e quello nella zona di Gaza. Il più ricco e più forte, in teoria, è quello della West Bank, visto che tra l’altro Gaza è sostanzialmente inaccessibile. Quando noi siamo partiti, per la sfida di andata, e abbiamo attraversato una piccola parte di Israele, siamo stati addirittura scortati e nell’autobus con noi era presente un responsabile della FIFA. Arrivati al confine, dopo pratiche burocratiche infinite, siamo entrati dentro questa specie di bunker e poi abbiamo percorso circa un chilometro dentro una specie di gabbia a cielo aperto. La squadra che affrontavamo era la Shejaia, un quartiere popolare di Gaza che era stato bombardato a luglio dell’anno precedente. Intorno a noi abbiamo quindi trovato palazzi distrutti e casa bombardate: un vero e proprio scenario di guerra. Ed io sono rimasto a guardare questi ammassi di cemento e di ferro distrutti ed immaginavo che li prima c’era la vita, fondamentalmente. C’erano delle famiglie, c’erano dei sogni, c’erano dei bambini che adesso non c’erano più. Mi ha fatto un effetto devastante. Successivamente siamo arrivati in albergo. Molto bello, vicino al mare, dove tutte le sere c’era la musica e c’erano un sacco di giovani. C’era, quindi, la vita, che di fatto andava a cozzare con quello scenario che avevamo visto precedentemente. E questa è una cosa che mi ha colpito particolarmente, perché la gente di Gaza, nonostante tutto, aveva e manifestava fortemente questa gran voglia di vita. Abbiamo avuto inoltre la fortuna di incontrare uno dei leader di Hamas. Con lui abbiamo cenato in un bunker sotterraneo, circondanti da guardie del corpo armate. Una situazione alquanto buffa e paradossale se ci si pensa bene, perché in sostanza abbiamo passato l’intera serata in compagnia di un personaggio conosciuto comunque a livello internazionale e additato dalla stampa come il capo di un organizzazione terroristica,semplicemente parlando di calcio, di tattica, di allenamenti e cose del genere. Il giorno successivo, comunque, abbiamo giocato questa partita. Il fischio di inizio era previsto per le ore 18, ma dalle 10 della mattina l’impianto sportivo era già pieno in ogni ordine di posto. C’erano circa diecimila persone, e potevano essercene anche di più se una delle tribune non fosse stata distrutta dal bombardamento dell’anno precedente. La partita è stata di grandissima intensità dal punto di vista agonistico ed il risultato finale è stato di zero a zero. Ricordo che siamo usciti tra gli applausi perché fondamentalmente quella era una festa dello sport. Erano quindici anni che non si affrontavano una squadra di Gaza con una squadra della West Bank. Era un evento storico ed importantissimo. Successivamente abbiamo giocato la partita di ritorno a Hebron. Anche in questo caso i nostri avversari sono stati accolti con tutti gli onori. La città intera li aspettava all’ingresso di Hebron per poi scortarli fino all’albergo. E anche in questa occasione lo stadio era completamente esaurito. Un’intera tribuna, tra l’altro tifava per loro, visto che erano presenti i tifosi dei nostri rivali in campionato che si erano schierati, giustamente, con la squadra ospite. Un’atmosfera bellissima e noi abbiamo vinto per due a uno e ci siamo aggiudicati questa storica Supercoppa Palestinese. Un trofeo che, tra l’altro, conservo con molto orgoglio visto che il presidente ha deciso di regalarmela, su mia richiesta ed è stato per me un grande privilegio.”

Nell’Ottobre del 2015 però, rassegni le tue dimissioni per motivi personali. Alcune indiscrezioni parlavano addirittura di un tuo possibile incarico come CT della nazionale palestinese. E poi, invece?

Ho rassegnato le dimissioni ad Ottobre perché avevo fatto la domanda per il Master di Coverciano per il patentino “UEFA Pro” e quando ho saputo di essere stato selezionato per potervi partecipare ho parlato con la società che ha capito subito le mie esigenze. Partecipare a questo corso significava dover venire in Italia tutti i mesi per essere presente agli incontri e ai corsi previsti, assistendo agli allenamenti e alle partite di molte squadre di Serie A: un impegno molto importante che non mi avrebbe consentito di proseguire al meglio il mio lavoro in Palestina. Senza dimenticare che in quei luoghi i trasferimenti e i viaggi sono piuttosto complicati e dover partire ogni mese da Israele per tornare in Italia e viceversa sarebbe stato assolutamente impossibile. Mi è sembrato quindi giusto parlare con il presidente che ha compreso perfettamente la situazione. Per quanto riguarda l’offerta della Federazione palestinese, in realtà è avvenuta in precedenza alle mie dimissioni dall‘Ahli a-Khalil. Dopo aver vinto così tanto, la Federazione della Palestina mi ha subito proposto un progetto in tal senso, ma per gli stessi motivi che ho spiegato poc’anzi ho dovuto rifiutare. Però, ovviamente, poi non è detto che in futuro non possa accettare un incarico del genere, soprattutto ora che il corso è praticamente finito (ieri sera, e mi restano solo gli esami a settembre).”

Ora quindi sei in Italia, per questo Master di Coverciano che ti consentirebbe di conseguire il patentino di Allenatore “UEFA Pro”. Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

“I miei progetti per il futuro sono senz’altro quelli di continuare ad allenare. Io non faccio distinzione tra l’allenare in Italia, in Spagna, in Libia, piuttosto che una nazionale dell’Africa nera o una squadra negli Stati Uniti. A me piace allenare, mi piace stare in campo, far crescere dei giocatori, creare un progetto, vincere. Di conseguenza andrò dove ci saranno i presupposti per poterlo fare e dove ci sarà una società che mi metterà in condizione di lavorare insieme ad un gruppo serio e preparato per sviluppare un progetto. Che poi, parliamoci chiaro, io non sono nemmeno il tipo che pretende i contratti triennali. Io credo molto poco nei contratti ed è per questo che cerco sempre di firmare quelli annuali. Perché i contratti proseguono se le parti sono entrambe soddisfatte, se ci sono i presupposti per continuare a lavorare. Se invece la società è scontenta dei risultati o l’allenatore ritiene che il ciclo effettuato è sostanzialmente terminato, allora il contratto non ha più ragione di esistere. Io credo nel lavoro, credo nel rapporto con le persone, credo nei progetti, credo nello sviluppo: questi sono gli aspetti per me principali del mio lavoro. La mia prossima destinazione, quindi, sarà sicuramente una squadra con una sfida. Una sfida diversa dalle precedenti. Che potrebbe essere quella di salvare la squadra in Serie A con una formazione di ragazzini, oppure quella di vincere la Champions League Asiatica. Così come potrebbe essere quella portare una squadra africana al mondiale, o di vincere il campionato di serie B in Italia ed essere promossi in Serie A. Non mi pongo alcun limite.”

Grazie di cuore Stefano, per la tua disponibilità e per la tua cortesia nel rispondere alle mie domande.

“Grazie a te Daniele, ed un saluto a tutti i lettori di SuperNews.”


Leggi l'articolo completo sul sito di SuperNews a cura di Daniele Caroleo - link
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